LA CORTE DI APPELLO Visti gli atti del procedimento n. 834/10 R.Cam. Cons.; Premesso che L.A.: a) con sentenza Gup. Trib. Bari 7 novembre 2008 fu condannato alla pena di anni otto di reclusione per il delitto di partecipazione ad associazione armata finalizzata al traffico di stupefacenti, ed assolto dall'accusa di partecipazione ad associazione mafiosa e detenzione illegale di armi, aggravata ex art. 7 legge n. 203/91; b) dopo essere stato in custodia cautelare in carcere dal 30 novembre 2006, ottenne il 16 marzo 2009 gli arresti domiciliari dal Gup presso il Tribunale di Bari; c) fu destinatario di istanza depositata il 4 dicembre 2009 dal P.G. presso questa Corte, volta al ripristino della custodia in carcere alla luce del nuovo testo dell'art. 275 comma 3 c.p.p., introdotto con legge n. 38/09; d) a seguito del rigetto dell'istanza di cui al punto c) da parte di da questa Corte, che con ordinanza 22.12.09-14.1.09 ritenne la nuova norma non applicabile alle situazioni cautelari pregresse, fu destinatario di appello ex art. 310 c.p.p. del P.G., che il Tribunale del Riesame di Bari accolse con ordinanza 15-22 marzo 2010, divenuta esecutiva a seguito del rigetto, nello scorso ottobre, del ricorso per cassazione proposto dall'imputato; e) con sentenza di questa Corte in data 18 novembre 2010, e' stato condannato anche per i delitti di associazione mafiosa e detenzione illegale aggravata di armi, ad una pena che, in continuazione con la condanna per l'art. 74 d.P.R. n. 309/90 - ma previa l'esclusione, per tale reato, delle aggravanti contestate - e' stata determinata in quella complessiva di anni nove mesi tre di reclusione, oltre alla misura di' sicurezza di due anni di liberta' vigilata; f) con istanza depositata il 24 novembre 2010, sulla quale il 26 novembre 2010 il P.G. ha espresso parere contrario, ha chiesto la revoca o l'attenuazione della custodia cautelare in carcere, previa eventuale proposizione di questione di legittimita' costituzionale; O s s e r v a 1. Non puo' allo stato affermarsi il venir meno di ogni esigenza cautelare, e in particolare della pericolosita' sociale ex art. 274 lett. c) c.p.p., alla luce dei precedenti penali non lievi benche' non recenti (rapina, ricettazione, associazione per delinquere, falsa testimonianza, favoreggiamento, falso), della gravita' dei reati per cui e' condanna di secondo grado, nonche' della ritenuta applicabilita', a pena espiata, di una misura di sicurezza personale, la quale presuppone un positivo giudizio di pericolosita' sociale. 2. L'esclusione delle aggravanti relative al delitto di cui all'ari. 74 d.P.R. n. 309/90 potrebbe consentire l'applicazione, nella fase esecutiva, dell'indulto ex legge n. 241/06, il cui art. 1 cpv. lett. b) esclude le sole ipotesi di cui ai commi 1-4-5 del predetto art. 74. Alla stregua del casellario giudiziario, del resto, L. non ha finora goduto di tale indulto. Ai fini del giudizio di proporzionalita' ex art. 275 comma 2 c.p.p., quindi, il presofferto pari a circa 4 anni va rapportato alla pena in concreto espiabile alla stregua della sentenza di secondo grado, che e' pari non a 9 anni e 3 mesi, bensi' a 6 anni e 3 mesi. Deve anche considerarsi, in relazione all'aumento di pena per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa e detenzione illegale aggravata di armi - ostativi all'applicazione di misure coercitive diverse dalla custodia cautelare in carcere -, che lo stesso deve ritenersi gia' interamente espiato attraverso la pregressa custodia in carcere. 3. Poiche' le perduranti esigenze cautelari si riferiscono in concreto al solo delitto di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 (atteso, si ripete, che l'aumento di pena per i reati satellite e' stato di fatto gia' espiato), viene in rilievo la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275 comma 3° secondo periodo c.p.p., nella parte in cui, attraverso il richiamo dell'art. 51 comma 3-bis c.p.p., include il delitto di partecipazione all'associazione di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 in forma non aggravata tra i reati per i quali, in presenza di esigenze cautelari, non e' possibile l'applicazione di misura coercitiva diversa dalla custodia in carcere, anche quando siano acquisiti specifici elementi, dai quali risulti la possibilita' di soddisfare dette esigenze con altre misure, per contrasto con gli artt. 3, 13 comma l e 27 cpv. Cost. 4. La questione indicata e' rilevante, atteso che secondo la sentenza di appello L. ha commesso il reato in epoca non recentissima (fino al 27 aprile 2002) e, nel periodo tra il marzo 2009 e l'ottobre 2010, ha sempre rispettato la misura degli arresti domiciliari, che pertanto potrebbe essere adeguata alle esigenze cautelari ed e' stata aggravata in virtu' non di nuove circostanze di fatto bensi' di una modifica normativa, sulla cui (gia' controversa) applicabilita' alle situazioni pregresse si e' in concreto formato il giudicato. 5. La questione e' anche non manifestamente infondata. Vi e' infatti da considerare che, con sentenza nr. 265/10, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 275 comma 3 secondo e terzo periodo c.p.p., come modificato dalla legge n. 38/09, nella parte in cui - nel prevedere, che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600-bis comma 1, 609-bis e 609-quater del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelali possono essere soddisfatte con altre misure. Nella motivazione, la Corte Costituzionale ha affermato che le presunzioni assolute di sussistenza delle esigenze cautelari si giustificano nei soli casi in cui rispondono a dati di esperienza generale, riassunti nella formula id quod plerumque accidit. Cio' e' tipico per i "delitti di mafia in senso stretto", atteso che "l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice", si' che le misure cautelari diverse dalla custodia in carcere non sarebbero sufficienti a «troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosita'». Per converso, poiche' i fatti-reato cui fa riferimento la sentenza n. 265/10 «possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure», e' intervenuta la declaratoria di illegittimita' costituzionale sopra indicata. La situazione, a giudizio di questa Corte, non e' diversa per il delitto di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90. Come e' ragionevole presumere che chi commette induzione alla prostituzione minorile, violenza sessuale o atti sessuali con minorenni sia propenso per le piu' varie ragioni a ripetere tali condotte, e al tempo stesso consentire che emergano situazioni di fatto idonee non solo a smentire tale propensione, ma anche a ritenerla, ai fini dell'applicazione di misura cautelare attenuata, meno accentuata, cosi' un ragionamento analogo puo' farsi per il delitto di partecipazione ad associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, quanto meno nelle forme non escluse dall'indulto ex legge n. 241/06. Premesso infatti che tale possibilita' di concessione dell'indulto, correlata alla specifica e qualificata valutazione del legislatore clemenziale, ha un indubbio significato criminologico, e' da rilevare che l'associazione finalizzata al narcotraffico costituisce per sua natura un'attivita' imprenditoriale con oggetto illecito, l'adesione alla quale non e' correlata a una specifica subcultura e appartenenza personale, come e' tipico del sodalizio mafioso. Ed infatti, mentre l'adesione alla mafia e' di regola irreversibile (salvo i casi in cui il sodalizio venga totalmente sgominato, oppure l'aderente collabori con la giustizia), l'adesione al sodalizio impegnato nel narcotraffico e' di regola reversibile, non essendo infrequente che un narcotrafficante abbandoni l'associazione senza avere iniziato a collaborare con la giustizia, e senza che il sodalizio sia venuto meno. In altri termini, la pacifica inclusione del reato di cui all'ari. 74 d.P.R. n. 309/90 tra quelli di criminalita' organizzata non ne comporta, di per se sola e necessariamente, l'assimilazione sotto il profilo criminologico alla fenomenologia mafiosa. 6. Alla luce delle considerazioni che precedono, questa Corte ritiene quindi che, cosi' come nel caso dei procedimento per i, reati cui si riferisce la sentenza costituzionale n. 265/10, la norma impugnata violi, in parte qua:, i seguenti articoli della Costituzione: a) art. 3, per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 ai procedimenti concernenti it delitti di mafia nonche' per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili alle fattispecie di reato; b) art. 13 primo comma, quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della liberta' personale; c) art. 27 secondo comma, in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena;